Posted on 23 agosto 2017
Fotografie © Cristina Mesturini
Nell’epoca della saturazione dei segni e della moltiplicazione degli atti invasivi, si sente forte la necessità di un percorso del togliere. Barthes sosteneva che la pittura è cancellazione: non rappresentazione, quindi, ma processo di sottrazione alla rappresentazione stessa. È tempo di sparizioni, per riportare la forma all’invisibile, all’indicibile.
“Beckett aveva scelto l’albero come unica scenografia del suo primo allestimento parigino di Aspettando Godot e ne aveva affidato la realizzazione a Giacometti: “Ci doveva essere un albero. Un albero e la luna. Siamo stati lì tutta la notte, con quell’albero di gesso, a togliere, abbassare, a fare i rami più sottili. Non andava mai bene, per nessuno dei due. E uno diceva sempre all’altro: ‘Forse’. Passa il tempo. Nessuno in sala, o sul palcoscenico, osa fiatare. Quando Giacometti si alza ha deciso. Attraversa il teatro, sale su un praticabile e guardando da vicino il proprio albero comincia a togliere un rametto dopo l’altro. Ogni tanto si ferma e grida a Beckett seduto laggiù nel buio della platea:
[Giorgio Soavi, “Il quadro che mi manca”, Garzanti 1986]
Fotografie © Cristina Mesturini
Categoria: Blog, Photography Messo il tag: Beckett, Cristina Mesturini, Fotografia, Giacometti, Photography, Roland Barthes
Posted on 26 marzo 2017
Fotografie di Cristina Mesturini
I Sette Palazzi Celesti sono un’opera di Anselm Kiefer (Donaueschingen, 1945), in allestimento permanente site-specific concepito da Lia Rumma per Pirelli Hangar Bicocca, Milano. In uno spazio di 7000 metri quadrati, si alzano sette torri – del peso di 90 tonnellate ciascuna e di altezze variabili da i 14 e i 18 metri – realizzate in cemento armato utilizzando come elementi costruttivi moduli angolari dei container per il trasporto delle merci.
L’artista ha inserito, tra i vari piani di ciascuna torre, libri e cunei in piombo che, comprimendosi sotto il peso del cemento, garantiscono una maggiore stabilità della struttura. Per Kiefer l’utilizzo di questo materiale non ha solo un valore funzionale, ma anche simbolico: il piombo, infatti, è considerato nella tradizione materia della malinconia, metallo corruttibile dal quale gli alchimisti pensavano di poter ottenere l’oro.
L’opera deve il suo nome ai Palazzi descritti nell’antico trattato ebraico Sefer Hechalot, il “Libro dei Palazzi/Santuari” risalente al IV – V secolo d.C., in cui si narra il simbolico cammino d’iniziazione spirituale di colui che vuole avvicinarsi al cospetto di Dio. Un cammino che implica il passaggio attraverso i cieli, arrivando a visitare i Sette Palazzi dei quali si potrà varcare la soglia ogni volta solo eludendo la sorveglianza degli angeli.
Sefiroth, Melancholia, Ararat, Linee di Campo Magnetico, JH&WH, Torre dei Quadri Cadenti sono i nomi delle sette torri, che riferiscono alla Bibbia, alla Cabala, alla Storia antica e alle loro simbologie, che Kiefer porta nel contemporaneo, ripensandone i significati.
I Sette Palazzi Celesti rappresentano un punto d’arrivo dell’intero lavoro dell’artista e sintetizzano i suoi temi principali proiettandoli in una dimensione fuori dal tempo: l’interpretazione dell’antica religione ebraica; la rappresentazione delle rovine dell’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale; la proiezione in un futuro possibile in cui l’artista ci invita a guardare il nostro presente.
Insieme alle torri, cinque opere pittoriche di grandi dimensioni, prodotte tra il 2009 e il 2013 e ancora inedite, formano un’unica installazione, il cui ampliamento è stato curato da Vicente Todolì, ora resa percorribile al pubblico.
Jaipur è un immenso paesaggio notturno. Olio, emulsione, ceralacca e piombo su tela. Nella parte inferiore appare una struttura architettonica che ricorda una piramide invertita, in quella superiore un cielo stellato. Le costellazioni del cielo, collegate da linee, sono numerate utilizzando il sistema di classificazione della NASA.
La stessa numerazione che troviamo sparsa ai piedi di Melancholia, la torre delle stelle cadenti. I numeri dei corpi celesti sono riportati su piccole lastre di vetro e strisce di carta.
I simboli sono forti e opprimenti come metalli pesanti. Le costellazioni appaiono come semi nerastri, i pannelli in cemento si trasformano in colonne ioniche, i meteoriti sono i cocci dei vasi in cui, secondo la Cabala, Dio volle infondere la vita generando i popoli della terra. La creazione e la germinazione oscura, la storia, la tensione verticale, il piombo da trasformare in oro. C’è tutto qui, tutti i nomi delle stelle, e io qui voglio restare, seduta con la polvere nei capelli.
All images are copyright © Cristina Mesturini. All rights reserved.
Categoria: Art, Blog, Exhibitions, Photography Messo il tag: Anselm Kiefer, Art, Arte, Cristina Mesturini, Exhibitions, Fotografia, Photography, Pirelli Hangar Bicocca
Posted on 12 marzo 2017
di Cristina Mesturini
Intervista a Marco Steiner, fotografie di Marco D’Anna
Pubblicato sulla rivista letteraria Achab numero 6
È un progetto nuovo, quello a cui Marco Steiner e Marco D’Anna stanno lavorando insieme, e che li impegnerà, inizialmente per tre anni, attraverso piste non ancora battute, scelte in base all’improvvisazione e alla imprevedibilità degli incontri. Un progetto che comprende il lavoro in simbiosi tra scrittore e fotografo, un intrecciarsi di parole e immagini.
Marco Steiner è avvezzo a questo tipo di sinergie narrative: è stato il più stretto collaboratore di Hugo Pratt, per il quale ha compiuto le ricerche filologiche riguardanti le storie di Corto Maltese, e con il quale ha condiviso la passione per il viaggio, la letteratura d’avventura, la musica. Dopo la morte di Pratt, Steiner ha completato il suo libro Corte Sconta detta Arcana (Einaudi 1996) e, di recente, ha scritto due romanzi che vedono Corto Maltese tra i protagonisti: Il corvo di pietra e Oltremare (Sellerio).
Ma con questo nuovo lavoro il viaggio prattiano esce dalla dimensione dell’immaginario e si concretizza: si parte davvero. Corto Maltese non è mai stato un fine, piuttosto un tramite per realizzare qualcosa di diverso. Insieme a Marco D’Anna, Steiner passa dalla letteratura disegnata di Hugo Pratt a un racconto fotografico che non è semplice reportage di viaggio, non è nulla di puramente descrittivo, ma è stimolo per aprire nuovi spazi sui mondi della visione fantastica.
Corto Maltese. Itinerari di viaggio. Marco, com’è strutturato questo progetto?
Il senso è quello di creare itinerari di viaggio “alla maniera di Corto”, cioè in grande libertà. Sono nuove visioni possibili delle sue avventure. Come nelle storie di Pratt c’è una trama, una meta, un luogo geografico, un periodo storico, il “tesoro da cercare” – che nel nostro caso è un racconto –, e tutto il resto nasce per caso, sulla strada. Il progetto prevede dodici Itinerari che partano, arrivino o inventino “deviazioni” dalle storie di Corto Maltese. C’è voluto uno sponsor capace di sognare per lasciarci questa libertà totale di andare. Alessandro Seralvo di Cornér Banca a Lugano ha immaginato una serie di carte di credito con l’immagine di Corto, “Viaggiare leggeri” è il senso di tutto. Quando abbiamo definito il progetto la prima persona che mi è venuta in mente è stata Florenzo Ivaldi, l’imprenditore genovese che ha dato carta bianca a Hugo Pratt di viaggiare e raccontare le sue storie. Ci vuole un grande sogno per iniziare un vero viaggio.
Raccontaci come hai conosciuto Marco D’Anna, o meglio: cosa vi ha fatto incontrare. Quali affinità avete intuito tra voi, come avete visto la possibilità di creare qualcosa insieme?
Marco D’Anna l’ho conosciuto nel più prattiano dei modi, in Etiopia, seguendo le tracce di una storia, Gli Scorpioni del Deserto. Lui doveva documentare fotograficamente il lavoro di due giovani autori che avrebbero continuato un episodio di questa saga africana di Hugo Pratt, io seguivo il gruppo, prendevo appunti e pensavo a storie possibili. Non ci conoscevamo. Un giorno eravamo seduti vicini in un bus; dopo un po’ di silenzio, mi chiese cosa stessi scrivendo. Eravamo dalle parti del lago Assal, una distesa turchese in pieno deserto. Gli lessi alcune frasi di una storia, parlava di una carovana di sale e di un guerriero ribelle ferito che quegli sconosciuti avevano raccolto. Viaggiava con loro, lentamente guariva, e altrettanto lentamente iniziava il racconto fra quegli uomini e, senza saperlo, fra noi due. Da allora abbiamo fatto 14 viaggi in 7 anni per scrivere tutte le prefazioni alle storie di Corto Maltese in giro per il mondo.Lo scrittore e il fotografo. Qual è il vostro metodo di lavoro, come vi rapportate? Quali sono i vostri tempi, i vostri spazi?
I tempi e gli spazi sono quelli dell’acqua, dipendono dalle situazioni. Entriamo in un ambiente, un paesaggio, il vagone di un treno e ci adeguiamo. Di fronte a una roccia, il torrente l’aggira, quando si accentua la pendenza la corrente diventa impetuosa, in pianura scorre placido o compie larghi giri senza un vero motivo. Abbiamo una modalità “rispetto” che sentiamo dentro, quando vedo Marco interessato a soggetti da fotografare mi faccio da parte, osservo a distanza. L’interazione fotografo-soggetto deve essere diretta, se ci fossi anch’io sarebbe un’intrusione, l’equilibrio non funzionerebbe. Io osservo, immagino chi potrebbe essere quella persona, cosa potrebbe raccontare. Quando la cosa procede Marco mi fa un cenno e arrivo, la roccia viene lambita senza essere aggredita e lo scorrere liquido prosegue. Viaggiando ci lasciamo spazi vuoti, giornate di silenzio. Lui esce all’alba o di notte per cercare qualcosa, altre volte lo faccio io. Siamo sempre pronti ad assorbire suggestioni, immagini, un pezzetto di storia. Senza dirlo, senza cercare razionalmente, senza precisione né regolarità. Quando si sente una nota che vibra, il gioco parte da solo.
Nella comunicazione contemporanea, la contaminazione tra visivo e scritto è sempre più intensa e presente. Nella narrazione come interagiscono tra loro i diversi linguaggi? Come giocano, tra percezione e memoria, le immagini e le parole?
Marco vorrebbe che gli raccontassi fin dall’inizio cosa sto cercando, per tarare il tema delle immagini; così il nostro dialogo s’imposta su una base di storia, c’è un accordo iniziale, una specie di tema musicale. Poi il viaggio comincia e i sensi si tendono e guidano il percorso che la mente segue. È sbagliato cercare un obiettivo ben definito, meglio lasciarsi andare come una vela spinta dalla brezza. A quel punto è la strada, l’incontro casuale, una porta chiusa, un cartello storto che suggeriscono l’itinerario da seguire e si comincia a suonare il jazz. Le immagini s’intrecciano alle parole, a volte spuntano ricordi, disegni di Pratt, frasi di Corto, uno specchio, una giostra. L’accordo iniziale risuona, poi arrivano le note nuove, la melodia cambia e tutto s’ingrana, morbido. Certe volte ci rendiamo conto a posteriori che il viaggio e la storia hanno tracciato un cerchio e la musica diventa armonia. È successo in Argentina e Cile, nell’ultimo viaggio. Guardando la cartina, alla fine del nostro percorso, avevamo tracciato un cerchio imperfetto. Non l’avevamo pianificato, ogni tappa ci ha guidato alla successiva, fra inconvenienti, scelte e casualità. Qualcuno ci ha detto che il canto di un uccello può essere un segnale per il viaggiatore, non è un suono, è la voce del bosco. La nota imprevista, il regalo del viaggio.
Nell’era di Internet, il viaggio si compie su uno schermo, gli itinerari sono matasse intrecciate da nodi e i luoghi eterotopie sospese tra il reale e l’immaginario. Come si colloca il vostro progetto nella realtà virtuale contemporanea? È davvero possibile annullare le distanze? Se è vero che il luogo è dato fisico, può essere definito anche come spazio di strutturazione dell’interazione sociale?
Nell’era di Internet è ancora più bello rompere le regole perché tutto sembra già detto, visto, possibile e programmabile. Si riesce a guardare un luogo attraverso Google Earth, trovare un albergo con pochi click del telefono, sapere la distanza fra un luogo e l’altro e la temperatura che troveremo a centinaia di chilometri. Tutto questo è vero e di grande comodità, ma se non si entra nella mentalità di cercare qualcosa di nuovo e inatteso si resta invischiati negli stereotipi, il viaggio lambisce la realtà e non s’impregna di odori e colori. Ci si sposta infilati in una scatola di certezze e tutto diventa un video già visto, un tentativo di riscontro sul posto dei simulacri di una realtà preconfezionata. Lo spostamento fisico non provoca cambiamenti in noi se non c’è apertura allo stupore, le verità accadono fuori dalle gabbie protettive. Per annullare le distanze è necessario annullare la nostra mentalità, sradicarsi, essere disponibili e recettivi al cambiamento.
I nostri Itinerari hanno un grande vantaggio, cercano connessioni con le storie di Corto Maltese, cercano Escondida, l’isola che non c’è, quindi non possono accontentarsi della realtà. Per nostra fortuna (e scelta) non dobbiamo documentare un paese, ma inventare una storia possibile e non bastano gli occhi che guardano, la macchina fotografica che documenta, un testo che descrive. È necessario calarsi in profondità, sciogliere i freni, scostare le tende che coprono una finestra, sporcarsi di polvere per calarsi nei vicoli secondari, ignorare le immagini romantiche e fasulle di un paesaggio, rompere le cartoline e seguire l’istinto, non lo stereotipo. Un esempio è meglio di una spiegazione.
Nel corso del nostro ultimo viaggio uno degli obiettivi era l’isola di Chiloé, in Cile. L’isola dello scrittore Francisco Coloane, dei vascelli fantasma e delle leggende vive di popoli sterminati. Puntavamo la costa occidentale, quella costellata da isole e scogli, quella dei tesori scomparsi fra vulcani scuri e fiordi umidi e verdi. Ma qualcuno ci aveva parlato di Cucao, un posto sperduto sulla costa del Pacifico. Quel giorno c’era un gran vento e sarebbe stato bello vedere cosa avrebbe combinato tutto quell’Oceano libero, quelle onde maestose che arrivavano dall’Asia dopo aver scavalcato l’Isola di Pasqua.
Quasi per magia ci siamo ritrovati in un altro mondo: sulla spiaggia rotolavano sassi tempestati da antiche concrezioni fossili che sembravano disegni, chiazze di sabbia rosso-mattone venivano setacciate da due cercatori d’oro e una strada si perdeva fra colline umide di nebbia e vapori del mare. C’era un’altra spiaggia laggiù, ancora più battuta dal vento, il sole stava calando e la strada diventava ancora più scoscesa e fangosa, bisognava sbrigarsi. La macchina slitta, s’infanga e si blocca mentre la notte è quasi arrivata. Ci sono 14 chilometri per tornare in paese. Il buio avvolge tutto, ogni rumore fa tendere i nervi, soprattutto il latrare di cani lontani. A metà strada una luce fioca, una casa, tre anziani ci accolgono, ci fanno mangiare del pane, dividono con noi un pesce insieme a scarne parole. Non c’è elettricità, siamo intorno alla stufa, fuori il vento grida forte. Raccontano che c’è qualcosa da vedere prima di quella spiaggia irraggiungibile. Domani.
Il luogo si chiama El Muelle del Alma, il Molo dell’Anima.
Una passerella di legno, un molo proteso verso l’infinito fra cielo e mare. Una leggenda Mapuche dice che le anime aspettavano lì la nave bianca di onde che li avrebbe portati oltre l’orizzonte, verso l’anima universale.
Un viaggio fuori dal tempo, dallo spazio, seguendo una deviazione, parlando intorno al fuoco, aggirando uno scoglio, lasciando l’acqua libera di andare.
Tanto anche se non è scritto da nessuna parte, là in fondo, da qualche parte, c’è il mare.
BookCity Milano 2016, Frigoriferi Milanesi.
Per la rivista letteraria Achab:
Gianni Berengo Gardin, Marco D’Anna, Cristina Mesturini, Marco Steiner.
Le fotografie sono copyright © Marco D’Anna.
Il sito web di Marco Steiner è www.marcosteiner.it
Il sito web di Marco D’Anna è www.marcodanna.ch/it
Categoria: Adventure, Blog, Interview, Magazine, Photography Messo il tag: Corto Maltese, Cristina Mesturini, Fotografia, Hugo Pratt, Letteratura, Marco D'Anna, Marco Steiner, Photography, Viaggio
Posted on 26 febbraio 2017
di Cristina Mesturini
Neanche trent’anni. Davvero difficile scriverne, dopo soli due giorni. Ren Hang si è tolto la vita. Uno dei più promettenti talenti della fotografia cinese, in una Berlino dove si era trasferito perchè osteggiato in patria.
E’ presto per voler ricordare: questo è un voler sottolineare il suo nome, senza cercare spiegazioni. Come nessuna spiegazione necessita la sua fotografia, priva di ogni concettualismo, intellettualismo, provocazione. Le sue immagini erotiche si mostrano in tutta la loro naturalezza. Il corpo nudo è un manifesto gioco di forme aderenti e composizioni plastiche, ironia e assonanze surreali con la natura, con animali-simbolo, con altri corpi, con mani e piedi in un vicendevole sostenersi poetico, anche negli scatti più crudi.
“E questa volta sarà molto chiara la coscienza, l’intelligenza e la memoria sembrano essere più acute”.
Una vasta produzione, la sua. In Cina i suoi corpi nudi fanno scandalo, continue le polemiche e le censure fino ad arrivare alle denunce e agli arresti. Eppure questo nudo, anche negli scatti più espliciti, non ha nulla di osceno. E’ una dimensione necessaria: per essere, mostrarsi, giocare. Un candore lucido, dove nuove forme vanno a crearsi attraverso corpi scomposti e ricomposti, tronchi e fogliame, terra e acqua, ali e animali totemici, elementi simbolici e oggetti del quotidiano, sospensioni su orizzonti urbani.
Orizzonti ora chiusi.
Resta una lunga lista di progetti, di mostre importanti come quella in corso al Foam di Amsterdam (fino al prossimo 12 aprile), e altre al Fotografiska e alla galleria Tryffelgrisen di Stoccolma, alla galleria Stieglitz19 ad Anversa. Numerose le pubblicazioni monografiche a edizione limitata, l’ultimo suo libro è “Ren Hang” (Taschen, 2016), che raccoglie le sue fotografie dal 2008 al 2015.
The images are copyright © Ren Hang.
More informations here.
Categoria: Blog, Monography, Photography Messo il tag: China, Cina, Cristina Mesturini, Fotografia, Photography, Ren Hang
Posted on 19 febbraio 2017
di Cristina Mesturini
Zhang Kechun (Sichuan, 1980) vive attualmente a Chengdu ed è uno dei più interessanti tra i fotografi cinesi che si stanno affermando in Europa e negli Stati Uniti.
Dal 2008, ha al suo attivo numerosi premi e partecipazioni a festival e mostre, sia collettive che personali, e i suoi lavori fanno parte di collezioni museali presso il “Chinese Image and Vedio Archive” (Canada), il “Williams College Museum of Arts” (USA) e il “CAFA Art Museum” (Cina).
Il suo progetto “The Yellow River” comprende due anni di lavoro, e si svolge come un pellegrinaggio lungo questo fiume infinito, il secondo della Cina e il sesto al mondo per lunghezza.
Ispirato dal libro di Zhang Chengzh Fiume del Nord, Kechun racconta: “Sono stato attratto dalle potenti parole questo romanzo, e ho deciso di intraprendere questo viaggio lungo il Fiume Giallo per poter trovare la radice della mia anima”.
La narrazione del Fiume Giallo fa parte della storia della Cina, ma è anche una raccolta di leggende che stanno scomparendo, un paesaggio in dissolvenza che la fotografia di Zhang rappresenta magicamente.
“Ma, lungo il percorso, il fiume dalla mia mente è stato inondato dal torrente della realtà”.
Viaggia su una bicicletta pieghevole, seguendo l’acqua interrata del fiume, dagli edifici lungo la costa di Shandong, ad ovest, verso le montagne del Qinghai. Ogni viaggio dura un mese, trascorso portando con sè una macchina fotografica Linhof di grande formato, un treppiede e la pellicola strettamente necessaria per poter lavorare. A volte, dice, è passata una settimana senza che scattasse una foto. “Volevo prendere il mio tempo, per rallentare e vivere ogni secondo di quei momenti.”
E questo tempo dilatato si percepisce con chiarezza nelle sue immagini, così come la dilatazione dello spazio immobile, la diluizione del colore, la visione della piccolezza dell’essere umano come formica, unico punto scuro nella distensione color sabbia.
“Il potere degli esseri umani è niente in confronto alla potenza della natura, anche quando cerchiamo di cambiarla”. Il fiume, venerato come culla della civiltà, costituisce anche un pericolo per le alluvioni che distruggono i raccolti, numerose le vittime, ogni volta.
Zhang non ha l’intenzione di documentare la distruzione dell’ambiente – altri lo hanno fatto -. Ma la corsa allo sviluppo della Cina ha segnato territorio del paese, l’aria e l’acqua, e il potente Fiume Giallo non fa eccezione. “Ho iniziato volendo fotografare il mio ideale di fiume, ma ho continuato a incorrere nell’inquinamento”, ha detto. “Ho compreso che non potevo fuggire da esso, e che non avevo bisogno di farlo”.
“Scelgo di scattare con il tempo nuvoloso, con le nebbie delle giornate uggiose, e di sovraesporre le mie foto”, spiega. “Ciò rende l’atmosfera morbida e delicata, e ogni fotogramma acquista una dimensione ultraterrena. Questa immobilità eterea acquieta le realtà quotidiane del fiume: il movimento, l’inquinamento, il rumore”.
Anche se i toni lunari, i bassi orizzonti, la sospensione temporale possono dare la sensazione di un’indefinibile presentimento, Zhang insiste con la volontà di portare un messaggio di speranza. Attraverso i secoli, il fiume continua il suo percorso.
Le immagini sono copyright © Zhang Kechun
Maggiori informazioni su zhangkechun.com
Categoria: Blog, Monography, Photography Messo il tag: China, Cina, Cristina Mesturini, Fiume Giallo, Fotografia, Landscape, Paesaggio, Photography, Yellow River, Zhang Kechun
Posted on 3 febbraio 2017
di Cristina Mesturini
Ata Kandó e Ed Van der Elsken
Oggi Ata Kandó è una signora di 103 anni che, con delicatezza e vivacità, racconta di una vita intera trascorsa con pienezza.
Nata a Budapest nel settembre del 1913, Ata proviene da una famiglia di intellettuali di origine olandese. Studia alla Bortnyik School, accademia d’arte privata, dove incontra il suo primo marito, il pittore Gyula Kandó.
Negli anni ’30 trascorre un periodo a Parigi e Barcellona con il marito, lavorando come fotografa di bambini. Durante la seconda guerra mondiale, Ata e Gyula sono entrambi attivi nella resistenza, adoperandosi per salvare numerose persone dalla deportazione.
Nascono tre figli, il primogenito Tom e poi una coppia di gemelle.
Nel 1947 Gyula decide di tornare in Ungheria, lasciando la moglie a Parigi con i bambini. Un periodo duro per Ata che, in ristrettezze economiche, si trova a dover lasciare soli i figli per lavorare. Tramite il suo connazionale Robert Capa, entra a far parte dell’agenzia Magnum, da poco fondata, dove, nel 1950, conosce il venticinquenne Ed Van der Elsken. Si sposano nel 1953 e un anno dopo si trasferiscono insieme ad Amsterdam. Ata continua a mantenere i contatti con Parigi, lavorando per la moda.
Ma il matrimonio con Ed finisce, troppa la differenza di età, e Ata decide di portare i figli in Svizzera e in Austria. Qui, con loro, tra le montagne, scatta le fotografie che andranno a comporre il libro “Dream in the Forest”, insieme ai testi del figlio quattordicenne Tom.
Dopo l’invasione russa in Ungheria nel 1956, Ata Kandó vuole realizzare un reportage per denunciare la situazione dei profughi ungheresi; con Violette Cornelius parte per un viaggio lungo il confine austro-ungarico. Pubblicherà un importante libro fotografico, il cui ricavato andrà ai bambini della rivoluzione.
Con i suoi figli, completa il libro “Dream in the Forest” e realizza un altro progetto, “Calypso e Nausicaa”, che sarà pubblicato soltanto nel 2004.
Dal 1961, viaggia attraverso l’Amazzonia per partecipare al matrimonio tra una modella parigina e l’assistente indiano di Le Courbusier. Resta così colpita dalla vita degli indiani del luogo, che vi torna ancora nel 1965, per un lungo soggiorno. Al suo ritorno fonda il gruppo di lavoro “South American Indians”, e pubblica il libro “Slave Or Dead”, che si sviluppa attraverso mostre e altre pubblicazioni, come “Children of the Moon”.
Dal 1979 al 1999, Ata si trasferisce in California vicino al figlio, continuando a lavorare e a pubblicare fotografie per un decennio. Riceve i meritati riconoscimenti solo al suo ritorno in Olanda: la medaglia “Pro Cultura Hungarica”, il premio “Imre Nagy”, il premio alla carriera dell’Associazione Fotografi Ungheresi e, insieme al marito Gyula, il premio “Righteous Among the Nations”, per aver salvato numerosi ebrei durante l’Olocausto.
Seguono ancora numerosi libri fotografici: nel 2004 la pubblicazione, in Olanda, di “Calypso e Nausicaa”, nel 2008 “The Living Other”, sul rapporto tra esseri umani e animali, nel 2010 la retrospettiva “Ata Kandó Photographer” e, nel 2015, “The Little Workers”, una collezione di 12 dipinti a guazzo realizzati per la sua tesi all’Accademia di Belle Arti, quando ancora non pensava di diventare fotografa.
“Il dovere del fotografo professionista è catturare le cose che altrimenti potrebbero scomparire. L’unico modo per mostrare come qualcosa è accaduto – le morti, la tristezza, la disperazione – è quello di fare una foto o filmare nel miglior modo possibile. Se non lo fai, scomparirà dalla storia. Gli autori che realizzano belle immagini, di oggetti o paesaggi, possono essere ottimi fotografi, ma non sono completi. Fotografare le persone e gli eventi, ecco il vero significato della fotografia. Questa è la mia opinione. “
The images are copyright © Ata Kandó, © Ed Van der Elsken, ©Sacha de Boer.
You can see more here: www.atakando.com
Categoria: Blog, Monography, Photography Messo il tag: Amazon, Ata Kandó, Bianco e nero, BNW, Cristina Mesturini, Ed Van der Elsken, Fotografia, Photography
Posted on 15 gennaio 2017
di Cristina Mesturini
La fotografia di Masao Yamamoto è, innanzitutto, una fotografia. Un oggetto, una di quelle piccole stampe che si possono tenere in mano e che passano di mano in mano, consumate dagli sguardi. Se la stampa è medium riproducibile, sono proprio le imperfezioni e i segni dell’usura a renderla un oggetto unico, ognuno con il proprio vissuto. Come nella filosofia del wabi sabi.
“Collezionavo insetti… Quanto alle fotografie, più che collezionarle ho raccolto cose belle che stavano intorno a me. La parola archivio non è adatta alla mia collezione, che rappresenta un tentativo di provare a interpretare e scoprire”.
Tutta l’opera di Yamamoto si basa sul frammento: le fotografie sono piccoli istanti di vita quotidiana, raccolti e conservati per creare una storia. L’allestimento della sue mostra diventa così significante: la ricomposizione di tutti queste piccole parti, che corrono sulle pareti come uno sciame cosmico senza un apparente filo logico, ma con un senso che verrà dato da chi guarda.
“La cosa più difficile è capire dove mettere la prima. Le mie installazioni non hanno un capo. Puoi incominciare da qualsiasi stampa. Il punto dove tu decidi di partire sarà dove la storia avrà inizio”.
Il valore della composizione, innanzitutto. Lo troviamo nelle singole immagini, nel perfetto equilibrio degli intervalli tra pieno e vuoto, tra terra e cielo. E nella strutturazione dell’insieme: nella relazione estetica e di significato che si instaura tra i fotogrammi, come una narrazione aperta in un dialogo continuo. Un dialogo al quale il visitatore è costretto a partecipare, avvicinandosi a queste piccolissime stampe senza vetro e senza cornice, che riportano alla dimensione più reale della fotografia.
E tutto si realizza attraverso immagini di grande delicatezza e di una semplicità disarmante: sono piccolissime banalità che sfiorano il sublime, conducendoci, nel loro minimo, a spazi di immenso respiro. Una contraddizione che porta a un senso di spaesamento che attrae come una vertigine, mentre la linea scorre elegante e sottile, a definire e separare gli opposti, confine leggero e silenzioso, ma incisivo.
“Nell’haiku del monaco e poeta Ryokan, composto da sole 17 sillabe, ho trovato la vastità dello spazio. L’uomo non è altro che parte della natura. Nel flusso del tempo, che sembra continuare dal passato al futuro, si può afferrare precisamente solo un istante del presente e la vita potrebbe essere la stratificazione degli istanti”.
Images © Yamamoto Masao
http://www.yamamotomasao.jp/
Categoria: Blog, Monography, Photography Messo il tag: Bianco e nero, BNW, Cristina Mesturini, Fotografia, Giappone, Japan, Masao Yamamoto, Photography
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.