Posted on 3 febbraio 2017
di Cristina Mesturini
Ata Kandó e Ed Van der Elsken
Oggi Ata Kandó è una signora di 103 anni che, con delicatezza e vivacità, racconta di una vita intera trascorsa con pienezza.
Nata a Budapest nel settembre del 1913, Ata proviene da una famiglia di intellettuali di origine olandese. Studia alla Bortnyik School, accademia d’arte privata, dove incontra il suo primo marito, il pittore Gyula Kandó.
Negli anni ’30 trascorre un periodo a Parigi e Barcellona con il marito, lavorando come fotografa di bambini. Durante la seconda guerra mondiale, Ata e Gyula sono entrambi attivi nella resistenza, adoperandosi per salvare numerose persone dalla deportazione.
Nascono tre figli, il primogenito Tom e poi una coppia di gemelle.
Nel 1947 Gyula decide di tornare in Ungheria, lasciando la moglie a Parigi con i bambini. Un periodo duro per Ata che, in ristrettezze economiche, si trova a dover lasciare soli i figli per lavorare. Tramite il suo connazionale Robert Capa, entra a far parte dell’agenzia Magnum, da poco fondata, dove, nel 1950, conosce il venticinquenne Ed Van der Elsken. Si sposano nel 1953 e un anno dopo si trasferiscono insieme ad Amsterdam. Ata continua a mantenere i contatti con Parigi, lavorando per la moda.
Ma il matrimonio con Ed finisce, troppa la differenza di età, e Ata decide di portare i figli in Svizzera e in Austria. Qui, con loro, tra le montagne, scatta le fotografie che andranno a comporre il libro “Dream in the Forest”, insieme ai testi del figlio quattordicenne Tom.
Dopo l’invasione russa in Ungheria nel 1956, Ata Kandó vuole realizzare un reportage per denunciare la situazione dei profughi ungheresi; con Violette Cornelius parte per un viaggio lungo il confine austro-ungarico. Pubblicherà un importante libro fotografico, il cui ricavato andrà ai bambini della rivoluzione.
Con i suoi figli, completa il libro “Dream in the Forest” e realizza un altro progetto, “Calypso e Nausicaa”, che sarà pubblicato soltanto nel 2004.
Dal 1961, viaggia attraverso l’Amazzonia per partecipare al matrimonio tra una modella parigina e l’assistente indiano di Le Courbusier. Resta così colpita dalla vita degli indiani del luogo, che vi torna ancora nel 1965, per un lungo soggiorno. Al suo ritorno fonda il gruppo di lavoro “South American Indians”, e pubblica il libro “Slave Or Dead”, che si sviluppa attraverso mostre e altre pubblicazioni, come “Children of the Moon”.
Dal 1979 al 1999, Ata si trasferisce in California vicino al figlio, continuando a lavorare e a pubblicare fotografie per un decennio. Riceve i meritati riconoscimenti solo al suo ritorno in Olanda: la medaglia “Pro Cultura Hungarica”, il premio “Imre Nagy”, il premio alla carriera dell’Associazione Fotografi Ungheresi e, insieme al marito Gyula, il premio “Righteous Among the Nations”, per aver salvato numerosi ebrei durante l’Olocausto.
Seguono ancora numerosi libri fotografici: nel 2004 la pubblicazione, in Olanda, di “Calypso e Nausicaa”, nel 2008 “The Living Other”, sul rapporto tra esseri umani e animali, nel 2010 la retrospettiva “Ata Kandó Photographer” e, nel 2015, “The Little Workers”, una collezione di 12 dipinti a guazzo realizzati per la sua tesi all’Accademia di Belle Arti, quando ancora non pensava di diventare fotografa.
“Il dovere del fotografo professionista è catturare le cose che altrimenti potrebbero scomparire. L’unico modo per mostrare come qualcosa è accaduto – le morti, la tristezza, la disperazione – è quello di fare una foto o filmare nel miglior modo possibile. Se non lo fai, scomparirà dalla storia. Gli autori che realizzano belle immagini, di oggetti o paesaggi, possono essere ottimi fotografi, ma non sono completi. Fotografare le persone e gli eventi, ecco il vero significato della fotografia. Questa è la mia opinione. “
The images are copyright © Ata Kandó, © Ed Van der Elsken, ©Sacha de Boer.
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Posted on 15 gennaio 2017
di Cristina Mesturini
La fotografia di Masao Yamamoto è, innanzitutto, una fotografia. Un oggetto, una di quelle piccole stampe che si possono tenere in mano e che passano di mano in mano, consumate dagli sguardi. Se la stampa è medium riproducibile, sono proprio le imperfezioni e i segni dell’usura a renderla un oggetto unico, ognuno con il proprio vissuto. Come nella filosofia del wabi sabi.
“Collezionavo insetti… Quanto alle fotografie, più che collezionarle ho raccolto cose belle che stavano intorno a me. La parola archivio non è adatta alla mia collezione, che rappresenta un tentativo di provare a interpretare e scoprire”.
Tutta l’opera di Yamamoto si basa sul frammento: le fotografie sono piccoli istanti di vita quotidiana, raccolti e conservati per creare una storia. L’allestimento della sue mostra diventa così significante: la ricomposizione di tutti queste piccole parti, che corrono sulle pareti come uno sciame cosmico senza un apparente filo logico, ma con un senso che verrà dato da chi guarda.
“La cosa più difficile è capire dove mettere la prima. Le mie installazioni non hanno un capo. Puoi incominciare da qualsiasi stampa. Il punto dove tu decidi di partire sarà dove la storia avrà inizio”.
Il valore della composizione, innanzitutto. Lo troviamo nelle singole immagini, nel perfetto equilibrio degli intervalli tra pieno e vuoto, tra terra e cielo. E nella strutturazione dell’insieme: nella relazione estetica e di significato che si instaura tra i fotogrammi, come una narrazione aperta in un dialogo continuo. Un dialogo al quale il visitatore è costretto a partecipare, avvicinandosi a queste piccolissime stampe senza vetro e senza cornice, che riportano alla dimensione più reale della fotografia.
E tutto si realizza attraverso immagini di grande delicatezza e di una semplicità disarmante: sono piccolissime banalità che sfiorano il sublime, conducendoci, nel loro minimo, a spazi di immenso respiro. Una contraddizione che porta a un senso di spaesamento che attrae come una vertigine, mentre la linea scorre elegante e sottile, a definire e separare gli opposti, confine leggero e silenzioso, ma incisivo.
“Nell’haiku del monaco e poeta Ryokan, composto da sole 17 sillabe, ho trovato la vastità dello spazio. L’uomo non è altro che parte della natura. Nel flusso del tempo, che sembra continuare dal passato al futuro, si può afferrare precisamente solo un istante del presente e la vita potrebbe essere la stratificazione degli istanti”.
Images © Yamamoto Masao
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