Tullio Pericoli: t e r r e

di Cristina Mesturini
pubblicato sulla rivista letteraria il Maradagal, numero 1

Lo studio di Tullio Pericoli si apre come un paesaggio. Tanta luce, i lunghi tavoli distesi, le librerie che si alzano al soffitto, le tele, i colori, gli arnesi di bottega, e ancora libri, fotografie: stratificazioni di un lavoro prezioso che va a coprire una carriera lunga e multiforme; dalle collaborazioni con le maggiori testate giornalistiche, alla pubblicazione di libri per importanti editori, fino alla pittura, alle mostre personali in sedi prestigiose in Italia e all’estero.

  La sua ricerca è tesa verso due grandi temi: il ritratto e il paesaggio. E proprio su quest’ultimo abbiamo deciso di impostare il nostro dialogo, per il primo numero del Maradagàl: terre immaginate, eppure presenti nella memoria, vive e mutevoli, in trasformazione continua; seguendo un percorso che ci conduce dai suoi lavori figurativi su carta fino alle ultime astrazioni materiche su tela.

Resto affascinata dal suo Robinson Crusoe (Adelphi, 2007) – lo sento “suo” e non di Defoe –, che raccoglie una serie di acquarelli realizzati tra il 1982 e il 1984, in parte per le pubblicazioni editoriali e in parte per le gallerie d’arte. È evidente come tutta la sua opera viva in una dimensione anti-illustrativa: pur essendo affiancata a un testo, ogni immagine non significa nient’altro che se stessa, nella propria piena autonomia, e il riferimento letterario non è null’altro che un’ispirazione esterna, lasciata sedimentare nella memoria come un seme.

    «Del leggere, ciò che mi attrae è la sollecitazione mentale. I libri più importanti per me sono quelli che ho dimenticato, perché sono quelli che mi hanno maggiormente distratto», dice Tullio, e «la distrazione è arricchimento, perché sta a significare che tale lettura ha stimolato la mia immaginazione, portandomi nuove suggestioni e trasformandosi in qualcos’altro».

    Nel Robinson il concetto di terra, di mappa, è particolarmente forte, è salvezza ed è l’ignoto. Pericoli lo affronta come farebbe il naufrago stesso, con un diario di bordo che riporta meticolosamente ogni esperienza in una catalogazione fantastica, raccogliendo furie meteorologiche, classificazioni geologiche, minuziose archiviazioni di strumenti, bestiari esotici. La storia prende forma, così, non attraverso l’azione, ma tramite la conoscenza dei vari elementi, e si può comporre e scomporre a proprio piacimento, seguendo il romanzo di Defoe o, meglio, inventandone uno nuovo.

    L’isola emerge in un mare di frangenti aguzzi come tagliole, piccola e viva dei suoi vulcani. Tutto è un muoversi, un agitarsi di punte, un ribollire di fumi e di spume. Il tratto a china è un intreccio fitto e delicato, il gesto è rapido e certo. L’acquerello è “terroso”, assume tonalità calde e ruvide come la carta che affiora in trasparenza. Pigmenti della stessa materia della terra, che Pericoli riporta anche nei suoi quadri, ai quali da diversi anni si dedica.

La ruvidezza dell’acquerello si trasforma quando il mezzo diventa la tela e il colore è quello denso della pittura a olio. Il tratto del pennino diventa incisione nella materia, pur conservando una rete di grafismi più o meno sottili, che talvolta assumono la forma di scritture. Pericoli dipinge il paesaggio collinare come se si appropriasse delle zolle intere, e le stendesse sul quadro. «Van Gogh diceva di arare le sue tele come i contadini aravano i campi che lui dipingeva», mi racconta.

    E l’olio è materia duttile: asciuga lentamente, permette interventi in fasi successive, sovrapponendo, incidendo, graffiando gli strati spessi e pastosi. Tullio usa vari strumenti, veri e propri arnesi che sembrano usciti dall’archivio del Robinson: oltre ai pennelli ci sono spazzole in acciaio, punte, pettini, scalpelli, spatole, stecche, mirette, sgorbie, da lui modificati e adattati al suo segno. Al cambiare della materia, dalla carta alla tela del quadro, anche il gesto cambia, diventa più fisico, sensuale. Le forme perdono la loro connotazione descrittiva fino a sfiorare la composizione astratta, uscendo definitivamente dalla dimensione della rappresentazione, della stampa, della riproducibilità seriale.  Ma la sua è un’astrazione fisica, concreta come le zolle: «cerco di portare l’astratto in qualcosa che è reale».

    Il rapporto con la materia pittorica è un rapporto con qualcosa che vive sotto la superficie, e porta in sé la sua storia di sovrapposizioni e sedimentazioni geologiche. Colline della memoria nelle quali le nostre radici affondano in profondità.

La linea d’orizzonte è il confine tra i due mondi del sopra e del sotto, non considerarla può essere una liberazione. E allora la visione sarà una prospettiva a volo d’uccello, in cui il quadro stesso può liberarsi dai margini, lasciare spazio all’immaginario oltre i bordi della tela: ciò che vediamo è solo una porzione dell’infinito, un ritaglio, un frammento, una composizione senza un centro.

    La superficie sarà segnata e incisa dal lavorio dell’uomo e degli eventi, sarà fragile e instabile, sempre sul punto di sfaldarsi. Presenterà smagliature, lacerazioni, crepe, attraverso le quali accedere al sotterraneo, a ciò che è accaduto nel tempo, nella storia geologica come nella nostra vita.

    È il nostro paesaggio mentale, dove s’incontra ciò che vediamo e ciò che siamo.

    Tullio Pericoli, in questo momento, sta finendo di lavorare a una grande mostra ispirata al paesaggio delle Langhe. Terre d’Alba sarà presentata il 23 settembre presso la Chiesa di San Domenico ad Alba, e comprenderà più di 80 opere, tra disegni e dipinti. Un lavoro che lo ha impegnato per due anni, durante i quali più volte si è recato sulle colline, in diversi momenti di clima e stagione, scattando una serie di fotografie per fissare le sue impressioni. È una pittura che arriva a una grande sintesi, fortemente grafica: i colori caldi e puri delle vigne sono un suggerimento, accanto al quale spesso prevalgono il bianco e il nero, segni come frammenti di scritture, ideogrammi. E la composizione prende la forma di un collage, ogni pezzo ha il proprio pattern e la propria trama, “cuciti” e lavorati con strumenti impensabili – anche ago e siringa – e in continuo movimento: un vibrare di segni e tessiture.

    C’è vita, dentro.

foto © La Repubblica

Le opere pittoriche su carta e su tela sono tutte di Tullio Pericoli.
Il suo sito web lo trovate qui: https://www.tulliopericoli.com/

il Maradagàl: il coraggio dei pionieri del volo

di Cristina Mesturini

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Una rivista letteraria, cartacea e illustrata, ora: è questa la sfida raccolta da il Maradagàl, uscita con il primo numero per Marco Saya Edizioni con la direzione di Sara Calderoni. Una sfida che anch’io sono felice di raccogliere, come direttore artistico.

  “Un osservatorio sullo stato attuale dell’arte” si legge nell’editoriale, “come occasione di discussione e approfondimento del pensiero critico contemporaneo”. Lavorare a un quadrimestrale che si pone tali obiettivi è davvero stimolante, specialmente all’interno di una redazione vivace, dove il progetto è condiviso con  Sara Calderoni e altri letterati e studiosi: Antonino Bondì in collegamento dalla Francia, Fabrizio Elefante, Nanni Delbecchi, Franz Krauspenhaar, Flavio Santi. E con un numero di preziosi collaboratori esterni.

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  Costruire l’immagine di una rivista:
relazioni e suggestioni tra visual e testo

   Dopo il briefing in redazione, arrivo al concept visivo attraverso un lavoro di pensiero e di ricerca: scelte precise, per dare alla rivista una personalità unica e tradurla creativamente in immagine, con la sua fisicità. Dalla scelta del formato e della carta, alla creazione del logo, all’ideazione e realizzazione dell’illustrazione di copertina, che ha significati e obiettivi complessi. Una rispondenza al tema che ho scelto di rappresentare, per i primi numeri, attraverso un simbolo forte che incarni il mito: una creatura fantastica che proviene dal bestiario allegorico del nostro immaginario e che identificherà, per quattro mesi, la rivista stessa.

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   E poi gli interni: la giusta suggestione per le immagini, che vivano in una dimensione anti-illustrativa, mai didascaliche; privilegiando una selezione di autori che non siano solo illustratori o fotografi, ma che provengano anche dal mondo dell’arte, e non solo dall’Italia: abbiamo, nel primo numero, personaggi come Tullio Pericoli, Guido Scarabottolo, Antonello Silverini, Svetlana Rumak da Mosca.
Seguono quindi, nel mio workflow, l’impostazione del menabò, il progetto grafico, l’impaginazione, in un cercato equilibrio di armonie. Infine, la comunicazione.

 

 

   Una pubblicazione cartacea trova le sue ragioni nel resistere al tempo e nella memoria, nella percezione viva attraverso i sensi che amplificano significati ed emozioni. È un oggetto da collezione – da affezione, direi – da conservare nella propria libreria, da sfogliare e rileggere ancora con piacere. La carta della copertina è così simile a quella per l’acquerello da creare con l’illustrazione una rispondenza esatta: la ruvidezza della materia, i giochi del colore con l’acqua, una luminosità vera, resa dai rapporti tonali e non da uno schermo retroilluminato. Quella sensualità che sarebbe impossibile rendere con il digitale.

 

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    Il Maradagàl nasce come rivista letteraria, ma si apre alle diverse arti e discipline. A mia cura anche la rubrica sulle arti visive, che tratta l’incontro con un artista, spaziando di volta in volta dall’illustrazione, alla fotografia, al graphic novel, fino alle nuove tecnologie. L’intento è porre in dialogo il mondo delle lettere e quello delle immagini, una relazione che è stata il punto cruciale del mio lavoro, fino ad oggi. Un rapporto in cui il figurativo non è subordinato al testo, ma si pone su un piano di scambio reciproco di suggestioni. Basta un cenno, un suggerimento, per creare un’immagine visiva, o una letteraria, che siano in sintonia, senza sovrapposizioni e senza mai ricorrere alla rappresentazione didascalica: immagini nelle immagini, storie nelle storie.

   Altro intento è mettere in comunicazione i vari settori della cultura: in una realtà dove l’arte si sta spingendo sempre più verso la multimedialità e la contaminazione dei linguaggi, si ha in contrapposizione la tendenza a chiudersi culturalmente in compartimenti stagni. I letterati considerano le immagini come piacevoli accessori, i fotografi rivendicano la purezza del loro mezzo, gli illustratori restano chiusi nella loro misantropia, solo per fare qualche esempio: non si guarda oltre. Chiusi anche i diversi livelli di accesso: la cultura alta resta un prodotto elitario, quella pop occuperà i canali di maggiore diffusione, così come vuole il mercato. Si rende necessario forzare questi recinti, aprirsi a una comunicazione feconda, dando a un pubblico più ampio la possibilità di acquisire gli strumenti per formare il proprio pensiero critico. Insomma: che la cultura con la sua forza si imponga sulle leggi del mercato, e non il contrario.
Mi auguro sia possibile.

 

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Copyright © Cristina Mesturini. All rights reserved

Il Maradagàl è una pubblicazione quadrimestrale di Marco Saya Edizioni

Direttore Responsabile: Sara Calderoni
Direttore Artistico: Cristina Mesturini
Comitato di Redazione: Antonino Bondì, Nanni Delbecchi, Fabrizio Elefante, Franz Krauspenhaar, Flavio Santi.

Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 215 del 10/07/2017

Contatti:
Redazione (Milano): ilmaradagal.redazione@gmail.com
Editore: info@marcosayaedizioni.com

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S K E T C H I N G

Copyright © Cristina Mesturini. All rights reserved.

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L’espressione è libertà, gioia, catarsi, e tante cose ancora. La tecnica fa parte della cultura dell’espressione, come formazione: è un training importante, fornisce strumenti, amplia le possibilità, soprattutto allena quel magico rapporto occhio-cervello-mano. Ma. Bisogna andare oltre.

Come si arriva alla creazione? Lo schizzo è davvero improvvisazione? Rivelazioni: gli scarabocchi dell’illustratore, così come non li avete mai visti.

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Lo schizzo, la bozza, la brutta copia.
La bellezza dell’imperfetto, della materia grezza, della mano veloce.
È davvero un gesto istintivo, oppure è, piuttosto, l’idea stessa, e quindi un atto intellettuale, progettuale? Lo schizzo è davvero improvvisazione? Non c’è forse dietro un lungo lavoro, sotterraneo e profondo, di ricerca, acquisizioni, riflessioni, confronti, tentativi, macerazioni, elaborazioni razionali e inconsce?

È un cercare basi solide su cui immaginare. Costruire una struttura nuova, diversa, che nasca da un guizzo della mano come dal guizzare della mente. Un guizzo sapiente.

 

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Spesso mi capita di amare i miei schizzi veloci, preparatori, più dell’immagine finale, rifinita alla perfezione e fissata così, sulla carta.
Nell’elaborazione tecnica si perde sempre un po’ d’anima. Perché la bellezza, la parte più autentica, sta nella progetto, nella promessa, nell’attesa di una rivelazione finale che non sarà. Perché la rivelazione è tutta nell’attraversamento, in quei segni rapidi e imperfetti, ma certi, che raccontano la creazione.

 

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All images are copyright © Cristina Mesturini. All rights reserved.

Il fare minimo. Conversazione con Guido Scarabottolo

di Cristina Mesturini. Pubblicato sulla rivista letteraria Achab, numero 5

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Una laurea in architettura, dal 1973 socio dello studio Arcoquattro, attivo come grafico, ma, soprattutto, illustratore. Guido Scarabottolo collabora con le più grandi agenzie pubblicitarie, con la Rai, pubblica per i principali editori e varie testate, tra cui L’Internazionale, il Domenicale del Sole 24 Ore, il NewYorker e il New York Times. Dal 2002 direttore artistico presso l’editore Guanda, una collaborazione che si concluderà a fine anno [2015, ndr].
“Bau”, per gli amici – tre lettere soltanto – lavora tantissimo, eppure pare sia notoriamente pigro.

Mi accoglie nel suo studio milanese, dietro una facciata coperta d’edera che pare un bosco. Una personalità riservata, la voce bassa e il tono pacato fanno pensare alle sue immagini, dove nulla è superfluo e la ricerca sembra tesa al produrre il minor numero di segni possibile.
Illustrazioni minime, nella composizione così come nelle cromie: la linea è un filo che si sgomitola definendo le figure, rapida e continua, a tratti un po’ nervosa, sopra le campiture di colore. Ed è il colore, piatto e opaco, essenziale quanto ricercato, a creare uno  spazio solido, attraverso accostamenti e contrasti insoliti: l’azzurro polvere e l’amaranto caldo, il giallo cromo e il freddo pistacchio, così puliti da sembrare serigrafati. Un sottile gioco di equilibri, che richiede più tempo per l’ideazione che non per la realizzazione: ecco, un attimo ed è fatto.

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La sintesi, Guido, è parte centrale del tuo lavoro: un percorso del togliere. Ma davvero la comunicazione è più efficace quando è sintetica, si dice di più dicendo di meno?

Sì. Amo molto la sintesi. Non ho fatto studi accademici di disegno, il virtuosismo manuale non mi interessa e la mancanza di un’impostazione tradizionale  mi permette di eludere le convenzioni. Amo i i disegni dei bambini, dei matti, di chi non sa disegnare. Perché sono liberi da certi stereotipi e hanno la capacità di trovare punti di vista inconsueti. I bambini con la loro mente nuova ci sorprendono sempre, visivamente come verbalmente.
La sintesi è anche un modo per evitare la raffigurazione descrittiva. Voglio lasciare spazio, non dire troppo, ma semplicemente suggerire, per dare a chi guarda la possibilità di immaginare ancora. Un’immagine ha sempre due autori: l’illustratore e il fruitore stesso, che partecipa alla creazione. Un’opera raggiunge la sua completezza solo con lo sguardo del lettore.

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Come lavora l’illustratore all’interno della casa editrice?
Qual è il rapporto tra parola e immagine, quale il processo creativo che si innesca in relazione a un testo?

Il ritmo di lavoro è molto veloce, è necessario produrre una dozzina di copertine in un paio di settimane. Leggere tutti i libri è impossibile, ma anche inutile, addirittura dannoso.
Il rischio è quello di avere troppe informazioni, di diventare descrittivi, di non lasciare spazio al sogno. Mi limito a documentarmi con un breve sunto. Il non-sapere troppo può essere molto utile nella fase creativa, permette di liberarsi dalle indecisioni.

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Le copertine. La sintesi è un tuo modo di vedere o una necessità comunicativa?
E quali sono i cambiamenti dettati dalle nuove tecnologie, quali le possibili aperture?

Ho sempre detto che la copertina deve arrivare a una sintesi segnaletica, per poter essere immediatamente identificabile e leggibile sullo scaffale della libreria. Ma le cose stanno rapidamente cambiando. Allo scaffale si sostituisce la vetrina virtuale del sito in rete, dove le copertine sono ridotte alla misura di un francobollo. Con le nuove tecnologie può accadere di tutto, la copertina potrà diventare semplicemente un’icona, un portale per poter accedere ad altro, non ci sono limiti. Dall’ebook più semplice a quello interattivo, al movie-book, tutte le possibilità sono aperte, e altre ancora. La funzione dell’immagine dovrà essere ripensata, in relazione ai nuovi media.

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Nuovi mezzi significano anche contaminazioni tra linguaggi. L’immagine in movimento: ti sei mai interessato all’animazione? La vedi come una possibile strada da percorrere?

Sinceramente no. L’animazione ha tempi troppo lunghi per il mio modo di lavorare. Finirei per annoiarmi. Ho bisogno di essere rapido nelle mie realizzazioni, sono impaziente. E sono legato all’immagine statica. Mi sentirei più vicino alla fotografia, piuttosto.

I tuoi progetti futuri? C’è qualcosa in cantiere, qualcosa di nuovo che ti piacerebbe sperimentare?

Ho diversi progetti nel cassetto, tra cui, per esempio, la realizzazione di opere tridimensionali. Ma manca sempre il tempo per potermici dedicare. Spero di riuscire a farlo, prima o poi. E vorrei anche riposarmi, un poco.

foto_marina_alessi_guido_scarabottolo(Ritratto di Marina Alessi)

Le illustrazioni sono tutte copyright © Guido Scarabottolo
Questo è il suo sito personale www.scarabottolo.com
Altre notizie su scarabottolo.tumblr.com

Immaginazioni scomposte. Intervista ad Antonello Silverini

di Cristina Mesturini. Pubblicato sulla rivista letteraria Achab, numero 4

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«Decostruire la nozione di visione, di sguardo, significa anche questo: esporre, nel vedere e nel visibile, il dissidio interno che li abita e li anima; mostrare come essi siano pervasi di differenza e di differenze – non sono mai elementi o atti pacificati, strutturati, consolidati una volta per tutte, bensì sono consolidati da un incessante movimento di differimento interno, di sé con sé. Il visibile è sempre anche invisibile», scrive Marcello Ghilardi nel suo saggio Derrida e la questione dello sguardo.

Il lavoro di Antonello Silverini parte proprio da qui, dalla decostruzione della realtà. Dalla citazione, che smonta, che smembra ricostruendo altro, creando forme e significati nuovi. Come nel processo di creazione del sogno. Possiamo vedere riferimenti al new dada, agli assemblaggi di Rauschenberg, ma il Silverini rimane unico e riconoscibile: la sua visione è fantastica ed essenziale, ironica e poetica al tempo stesso. I suoi personaggi sono icone storiche, ma agiscono nel teatrino scomposto della realtà contemporanea.
Antonello Silverini è un illustratore. Una definizione esatta che non gli rende completamente merito. Perché le sue opere, anche quando nascono da una commissione precisa, si staccano dal contesto in cui avrebbero dovuto essere ingabbiate – la pagina di un quotidiano, una copertina, un manifesto – e prendono il volo. Vivono di vita propria, completamente autonoma, prestandosi a letture diverse. E talvolta assumono dimensioni imponenti, con assemblaggi materici vari, che ti chiedi come sia possibile trasferire sulla carta stampata. Eppure per la stampa Antonello lavora, e lavora tanto. Per le pagine della cultura dei maggiori quotidiani italiani, dal “Corriere della Sera”, a “Il Sole 24 ore”, a “la Repubblica”; per periodici come “Geo”, “Panorama” e numerosi magazine americani; editori come Mondadori, De Agostini, Rusconi-Hachette, per citarne alcuni; importanti le copertine di Philip K. Dick per Fanucci; e i numerosi premi e riconoscimenti, fino all’inserimento nel Luerzer’s Archive – 200 Best Illustrators Worldwide.

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Antonello, il tuo lavoro è una felice commistione tra materia pittorica ed elaborazione digitale. Quale percorso ti ha portato a sviluppare questa tecnica?

Come tutti quelli che vengono da un percorso accademico più o meno tradizionale, ho sperimentato molte tecniche e sono passato attraverso diverse fasi. L’utilizzo del digitale, nel mio caso, non è solamente una comodità, ma sostituisce e amplia un elemento compositivo e significante già presente nel mio lavoro. L’aver scoperto la possibilità di manipolare la materia fotografica non più attraverso il classico collage, ma per mezzo di una fusione digitale meno iconograficamente invasiva e, al contempo, aver trovato il modo di digitalizzare la materia pittorica pre-esistente, senza dover passare per la traduzione di programmi dedicati al disegno (utilizzo esclusivamente photoshop), mi consente una maggiore gamma di opzioni tecniche e interpretative.

Le tue immagini sono strutture composte, ricche di citazioni, di pezzi scovati e raccolti. Come ti muovi nella tua ricerca?

La mia ricerca è puramente espressiva. I materiali che cerco e utilizzo, al pari delle citazioni, hanno una valenza, per così dire, linguistica. E proprio di linguaggio mi trovo spesso a parlare, quando mi riferisco alla mia produzione. Potrei dire che gli elementi che utilizzo, le citazioni e i riferimenti culturali –  perfino i materiali – rappresentano la grammatica del mio stile illustrativo e ne costituiscono il linguaggio.

L’illustratore lavora all’interno di un progetto complesso. Quanto il testo è per te un riferimento, quanto ti senti libero di esserne slegato?

Il testo è imprescindibile, altrimenti non sarei un illustratore. La sfida in questo mestiere risiede proprio nell’indipendenza e – allo stesso tempo – nel rispetto del materiale letterario che si va a interpretare. La libertà è quindi la premessa necessaria affinché si creino le condizioni per interpretare o, meglio, raccontare parallelamente un testo. L’importanza autoriale di un illustratore è sempre sostanza di tale arricchimento da dover essere preservata e difesa. Per quanto mi riguarda, consiglio sempre ai miei committenti di limitare le incursioni nel mio fare; proprio per evitare di depauperare un materiale che ha bisogno di tutta la sua libertà per potere esprimere la propria forza.

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I quotidiani, i libri, i grandi manifesti. Qual è il tuo spazio ideale?

Tutti gli spazi sono affascinanti. Ideali, semmai, sono le condizioni che caratterizzano i lavori. Le contingenze tematiche sono spesso l’elemento di maggiore determinazione, per quanto riguarda l’approccio a una immagine e le eventuali difficoltà sono spesso uno stimolo interpretativo. Non considero mai un’illustrazione come una summa di stilemi consolidati da reiterare all’infinito e mi rapporto a ogni lavoro senza lasciarmi suggestionare da precondizionamenti eccessivamente mestieranti (e aggiungo, retorici).

E nuovi desideri? Altri progetti?

Molti… Vorrei portare avanti il percorso che ho iniziato con la pittura e i grandi formati,  e senz’altro sperimentare nuove strade nell’illustrazione. Ma soprattutto in questo momento mi piacerebbe realizzare un progetto editoriale ambizioso:  un libro illustrato (anche graphic novel!), perché mi rendo conto di aver bisogno di confrontarmi con il racconto, di cimentarmi con la narrazione per immagini. Mi auguro di trovare le condizioni e le persone giuste con le quali collaborare.

 

I Maestri dell’illustrazione. "Antonello Silverini. La sintesi lirica" 
Documentario di Alessandro Cartosio

Le illustrazioni sono copyright © Antonello Silverini.
Questo il suo sito web personale www.antonellosilverini-illustrator.com.